Emergency, prima di tutto, dà dignità». La voce profonda di Ousmane Thiam, oltre ad essere ferma e decisa, è profondamente consapevole. Lo è non solo perché svolge da tempo il lavoro di mediatore culturale nella Piana di Gioia Tauro per conto della stessa ong, ma perché la sua storia personale è incentrata sul recupero, nel momento più inatteso, della dignità a cui si riferisce. Una narrazione fuori dall’ordinario che condivide con Alias mentre lo seguiamo nella sua giornata di lavoro che ha preso il via a primo mattino nell’ambulatorio fisso di Polistena, centro nevralgico delle attività di Emergency nella zona.
Nella sede creata in un immobile confiscato alla ‘ndrangheta, sono presenti vari servizi dedicati ad attività infermieristiche, orientamento sociosanitario e supporto psicologico. Gli impegni successivi ci portano a monitorare le varie tendopoli presenti nel territorio della Piana, in primis quella di San Ferdinando, tristemente nota per i migranti che lì hanno perso la vita negli anni, per la rivolta del gennaio 2010 e per lo smantellamento del marzo 2019 guidato da Salvini.
Mentre le rigogliose colture arboricole, per lo più agrumeti, si alternano lungo la strada dissestata che percorriamo a bordo di un van, Ousmane riavvolge il nastro dei ricordi e parte dal lontano 1998: «Dopo la scuola in Senegal, sono arrivato con un visto turistico in Francia e con i pochi soldi rimasti ho raggiunto l’Italia, in quanto il passaparola tra noi migranti era che si trattasse di un paese accogliente. Sono arrivato a Milano rimanendovi per un anno e cercando lavoro senza risultati. Successivamente mi sono spostato a Novara per lo stesso motivo ma a causa dello stress derivante dall’assenza di lavoro e dal peso delle responsabilità dato dall’impossibilità di aiutare i miei in Senegal, sono finito in ospedale. Ed è stata una fortuna, in quanto il destino ha voluto che il mio vicino di letto fosse un signore che aveva vissuto l’esperienza di migrante in Francia. Parlando, diventammo amici. Ma poco dopo morì a causa di un tumore di cui non mi aveva dato notizia. Una settimana dopo la mia dimissione mi chiamò suo figlio, dicendomi che il padre aveva espressamente chiesto di darmi un lavoro, dopo la sua morte, come apicoltore nella loro azienda. Alla famiglia devo tanto: mi hanno dato da dormire, mi hanno aiutato ad avere i documenti in regola e per due anni ho lavorato con loro».
L’arrivo alla tendopoli di San Ferdinando interrompe la conversazione. Le condizioni delle tende sono drammatiche, degne del peggior campo profughi che si possa immaginare. Pochi bagni malfunzionanti per centinaia di persone ed elettricità a tratti, in condizioni rischiose. Uno degli interventi non casualmente riguarda un uomo che ha subito una grave ustione da folgorazione proprio per cercare di far funzionare un quadro elettrico fatiscente: è vivo per miracolo e per l’intervento dei colleghi di Ousmane, che a bordo dell’ambulatorio mobile chiamato Polibus snocciolano i dati dei pazienti seguiti nel 2023. Si tratta di duemilacentouno prestazioni erogate per un totale di seicentotrenta persone assistite, per la maggior parte subsahariani di San Ferdinando, anche se spicca un 14,92% di italiani.
Ousmane nel frattempo ascolta, consiglia e indirizza i migranti della tendopoli che si rivolgono a lui verso i vari servizi che Emergency offre. Risaliamo a bordo per un lungo giro che riguarda diversi altri lavoratori stagionali accampati in varie aree rurali tra i comuni di Rosarno e Taurianova. Micro storie di ingegno, solidarietà e difficoltà come quella del distributore di carburante che lascia una linea di corrente aperta per far ricaricare gli smartphone ai lavoratori durante il giorno, si intrecciano con il racconto di Thiam: «Dopo il 2000, terminata l’esperienza con loro, sono rimasto senza nulla e ho lasciato il Piemonte per cercare opportunità nelle spiagge del Meridione. Ma le cose andarono male e di fatto, assieme ad altri, divenni un senza tetto rifugiatosi nelle tende del litorale. Giunta la stagione autunnale si palesarono due opzioni: tornare al nord e cadere nella microcriminalità oppure dirigermi a Foggia, nel ghetto di Rignano Scalo per fare il bracciante agricolo. Optai per questa seconda scelta. Ma è stata l’esperienza più difficile della mia vita. Dormivamo direttamente nelle baracche allestite in mezzo ai campi, con i topi che nella notte ci camminavano sopra. Ho visto persone morire per mancanza di assistenza e soccorso, in quanto le ambulanze non arrivavano dove eravamo noi perché dispersi nelle campagne e non c’era indirizzo. A questo si aggiungeva poi il controllo dei caporali che ci monitoravano sia con dei binocoli che con delle telecamere installate direttamente sui campi di lavoro. Avevi paura anche di allontanarti per andare in bagno. Inoltre ti tenevano legati a loro con dei pagamenti parziali dello stipendio. Non ci pagavano mai nel modo corretto, ma con dei piccoli acconti che ti costringevano ad attendere, magari fino all’inizio della stagione successiva».
Ma le cose cambiano, anche quando sembra non possa più accadere. Il momento della svolta giunge nel 2011: «Ricordo ancora adesso l’arrivo del bus di Emergency con a bordo medici e mediatori. La prima visita che feci fu in realtà semplicemente per parlare perché in quei momenti terribili, tra le tante cose che mancano, esattamente come per i braccianti che incontro nelle tendopoli, una delle principali è l’ascolto. La mia disperazione era tale che, nonostante avessi permesso di soggiorno a tempo indeterminato e patente, avevo deciso di mollare tutto. L’operatore mi disse che eventualmente mi avrebbero inserito in un programma di ritorno volontario assistito. Per fortuna le cose sono andate diversamente: mi invitarono a Firenze ad un incontro di volontari. Al termine del mio intervento venne fuori una proposta di lavoro come mediatore culturale. Accettai e a oggi, da circa dieci anni, vivo qui assieme alla mia famiglia che mi ha raggiunto»